Ogni buon gioco ha un obiettivo da raggiungere e dei passi concreti per raggiungerlo: è ciò che inchioda molti adulti e bambini allo schermo e fa passare anche delle ore a lavorare duramente e felicemente per raggiungerlo. Le caratteristiche che ci interessano sono due: si tratta di obiettivi desiderabili e raggiungibili; solamente così siamo motivati ad agire.
Se un obiettivo non è desiderabile non è un vero obiettivo ma un compito, o al massimo un problema da risolvere. Quindi una cosa subìta, che può anche coinvolgerci ma che non ci entusiasma.
Se un obiettivo è desiderabile ma non è raggiungibile, allora è un desiderio: qualcosa di altamente motivante ma che resta nell’ambito dei sogni, rifuggendo dalle azioni concrete per raggiungerlo.
Ogni buon gioco ha una seconda forte caratteristica: c’è sempre un fallimento. Strano, perché a nessuno piace fallire, eppure i giocatori passano anche l’80% del loro tempo a fallire. E lo fanno godendo, eccitati, ottimisti. Il punto è che tanto più falliscono, tanto più sono motivati a fare meglio, a provare di nuovo perché andrà meglio. Finché arriva il giorno in cui li padroneggiano a tal punto da esserne annoiati, e li abbandonano. Questo ci fa pensare che non sia tanto il successo a legarli al gioco, quanto qualcosa che ha a che vedere con l’apprendimento: i giochi eliminano la nostra paura di fallire perché ci proiettano in una cornice cosiddetta “feedback”, entro la quale possiamo misurarci in modo incrementale. Il successo in sé, paradossalmente, dà piacere ma ci lascia anche un vuoto, la perdita di qualcosa di interessante da fare.
Ecco quindi la seconda riflessione da trasportare in ambito lavorativo: in che modo creare una cornice-feedback entro cui sia possibile lavorare su obiettivi incrementali, permettendosi prove ed errori, valorizzandoli come apprendimento?