Decision Making
E’ ora di sfruttare praticamente le scoperte della scienza sperimentale
Benché gli studi sperimentali abbiano dimostrato quali sono i reali processi cognitivi sottesi alle prese di decisione manageriale, nella pratica quotidiana delle organizzazioni si stenta a tenerne conto. Come mai?
I processi di scelta e decisione sono spesso disseminati di insidie per il manager.
Già negli anni ’60 Herbert Simon, poi premio Nobel per l’economia, aveva dimostrato – con il suo Principio di Razionalità Limitata – che in queste situazioni la razionalità svolge un ruolo forzatamente limitato per ragioni di tempi e contesti. Alla fine, diceva lo studioso, il criterio non è più quello della scelta più razionale, cioè quella che massimizza i vantaggi, ma della scelta soddisfacente: un trade-off nella sostanza.
Dagli anni ’70 in poi ulteriori studi sperimentali su questo argomento, condotti da molti studiosi tra cui spiccano Daniel Kahneman, Amos Tavesky e Max Bazerman, hanno approfondito la questione, arrivando a dimostrare che il primo nemico del manager nel decision making è esattamente dentro alla sua testa. Nessun manager naturalmente ammetterebbe mai di agire in modo naif quando sceglie, anzi a volte ci sono personaggi che hanno costruito su di sé una fama di decisori infallibili. Pura fortuna, dice il premio Daniel Kahneman- lui pure Nobel per l’economia- mascherata da un’illusione di razionalità.
In particolare, gli studi sul processo decisionale hanno mostrato quanto illusoria sia questa convinzione e come, in realtà, siamo sempre esposti a condizionamenti – da parte del nostro stesso modo di pensare – che possono insidiare la capacità di giudicare e di agire lucidamente. Illustrando i risultati della sua ricerca, Kahneman esplora la mente umana e ci spiega come essa sia caratterizzata da due processi di pensiero ben distinti: uno veloce e intuitivo (sistema 1), e uno più lento ma anche più logico e riflessivo (sistema 2). Se il primo presiede all’attività cognitiva automatica e involontaria, il secondo entra in azione quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono concentrazione e autocontrollo. Efficiente e produttiva, questa organizzazione del pensiero ci consente di sviluppare raffinate competenze e abilità e di eseguire con relativa facilità operazioni complesse. Ma può anche essere fonte di errori sistematici (bias), quando l’intuizione si lascia suggestionare dagli stereotipi e la riflessione è troppo pigra per correggerla.
L’effetto profondo dei bias cognitivi si manifesta in tutti gli ambiti della nostra vita, dai progetti per le vacanze al gioco in borsa, e le questioni poste da Kahneman si rivelano spesso spiazzanti:
- E’ vero che il successo dei trader è del tutto casuale e che l’abilità finanziaria è solo un’illusione?
- Perché la paura di perdere è più forte del piacere di vincere?
- Come mai gli ultimi mesi un po’ meno felici di un anno felice abbassano di molto la felicità totale?
Nel rispondere a queste e ad altre domande analoghe, Kahneman compone una mappa completa della struttura e delle modalità di funzionamento del pensiero, fornendoci nel contempo preziosi suggerimenti per contrastare i meccanismi mentali «veloci », che ci portano a sbagliare, e sollecitare quelli più «lenti», che ci aiutano a ragionare.
Per concludere una riflessione: questi studi risalgono ormai a trent’anni fa, il Nobel a Kahneman è stato assegnato nel 2002 e tuttavia l’incidenza di queste scoperte nella pratica quotidiana dei processi organizzativi è ancora piuttosto bassa. Vien da chiedersi il perché di tale evitamento generalizzato: sarà razionalità limitata o calcolo deliberato?